LETTERA DI TONI PESSOT A SERGIO, FRATELLO DI GIUSEPPE ANTONINI

Di seguito riportiamo la lettera che Toni Pessot (Freccia) scrisse a Sergio fratello di Giuseppe Antonini, giovane partigiano del Battaglione Ippolito Nievo, ucciso dai nazi-fascisti mediante impiccagione in Piazza a Caneva (PN)


I fatti avvenuti a Caneva di Sacile i giorni 7 e 8 Novembre 1944.

Carissimo Sergio, mi chiedi di rievocare quei lontani avvenimenti che mi riempiono di tristezza, ma anche d’orgoglio per averli vissuti, ed io cercherò di farlo se non altro perché quei fatti non dovranno mai essere dimenticati. 

Tu fratello Bepy ed io abbiamo avuto una grande colpa: amare la Patria e la Libertà del nostro paese allora invaso dall’ odiato tedesco aiutato dei servi fascisti. Per essere stati patrioti, per aver amato la nostra Patria, abbiamo dovuto sopportare prove tremende; io atroci ferite, tuo fratello la morte in piazza a Caneva. Eppure in quella piazza dovevo esserci anch’io, ma la pietà di Assirelli e il destino avevano disposto altrimenti. 

Ed ora ecco come si sono svolti i fatti. Il giorno 31 ottobre 1944 una nostra pattuglia si era appostata presto il cimitero di Caneva, dove attese un gruppo di tedeschi che erano soliti recarsi nei paraggi. L’ intenzione era di catturare qualche tedesco, sempre necessario per eventuali scambi con i nostri compagni che fossero caduti nelle loro mani. All’ intimazione del mani in alto i tedeschi reagirono sparando contro la nostra pattuglia che subito rispose al fuoco. Nel breve scontro furono colpiti un sergente, che morì all’istante, e il maresciallo capo della guarnigione di Caneva. Il resto della pattuglia tedesca riuscì a fuggire attraverso i campi, lungo l’argine del canale della centrale elettrica. Il comando tedesco, informato del fatto, organizzò subito un rastrellamento arrestando tutta la gente presente in cimitero che stava accudendo alla pulizia delle tombe, approssimandosi il giorno della commemorazione dei defunti. 

Per completare il quadro della situazione, devi sapere che qualche giorno dopo giunse al comando fascista una lettera anonima che denunciava tutti i partigiani del paese, tra i quali tuo fratello, Masutti, io e altri. Il giorno 7 novembre fu arrestato tuo fratello e il giorno 8 fui arrestato anch’io. Quella maledetta spia aveva fatto un buon lavoro, non c’è che dire. Non la potrò mai dimenticare e dovrebbe essere maledetta. Mi portarono al comando tedesco e fascista e mi rinchiusero in una stanza. Qui avvenne il primo incontro con Bepy. Egli aveva veramente un cuore grande; mi abbracciò e baciò; mi chiese subito come mai mi ero lasciato prendere, cosa succedeva fuori e chi avevano arrestato. Nei pochi minuti che ci lasciarono soli ci mettemmo d’accordo di non parlare, di non fare nomi di nessuno. Morire, ma non denunciare nessuno dei nostri partigiani. Ci capimmo subito mentre sottovoce ci dicevamo queste cose. Pochi minuti dopo ci portarono in un’altra stanza dove era già pronto il tribunale che doveva giudicarci. Le nostre accuse purtroppo erano pesanti. 

Io avevo tre capi d’accusa: capo partigiano, comunista, rifornitore. Tuo fratello: responsabile di tutti i sabotaggi ai danni della centrale elettrica, alle garitte delle sentinelle tedesche, delle bombe scoppiate lungo le tubazioni dell’acqua. Nonostante avessimo come avvocato difensore il tenente Assirelli sapevamo che queste gravi accuse non ci lasciavano molte speranze di salvarci. Il processo fu fatto dai tedeschi e fascisti insieme e venne svolto tutto in lingua tedesca. Solo quando il tribunale rientrò dalla camera di consiglio e lesse la sentenza, sempre in lingua tedesca, capimmo solamente la parola caput cioè morte. La sentenza ci fu poi letta in lingua italiana: eravamo condannati a morte mediante impiccagione alle 06:00 pomeridiane di quello stesso giorno, 8 novembre 1944, in piazza a Caneva. 

Cosa provammo in quel momento te lo lascio immaginare; è una cosa indescrivibile che non si può nemmeno ricordare. Ci siamo guardati in silenzio senza però versare una lacrima. Subito entrarono altri soldati che ci portano fuori dividendoci. Fecero entrare tuo fratello in una stanza. Da quel momento non vidi più Beppy. Mi fecero entrare in una stanza dove erano già pronti gli aguzzini per torturarmi, nella speranza di farmi parlare e sapere così altri nomi di partigiani e collaboratori del paese. Ricordai quanto ci dicemmo prima del processo, tuo fratello ed io, e pensai che non valeva la pena di trascinare altri in quella stessa situazione, già tanto mi avrebbero ucciso lo stesso. Pensai di resistere a qualsiasi tortura e dolore, senza dire una parola, evitando altri arresti e sangue per altre famiglie del nostro paese. 

Quello che fecero fu terribile: aghi sotto le unghie delle mani e dei piedi, matite tra le dita delle mani che poi torcevano in modo da fracassarmi le ossa; nonostante ciò non dissi una parola. Quando però vollero bruciarmi le mani con la fiamma ossidrica, non seppi più resistere e, persa la pazienza, mi scagliai contro quegli aguzzini. Tutti 15, tanti erano, mi furono addosso massacrandomi. Mi fecero una testa grossa come un cesto, avevo sangue per tutto il corpo e persi i sensi. Quando rinvenni mi trovai in un’altra stanza, in mezzo al sangue e acqua, con un sasso sotto la testa. 

Mentre avvenivano queste cose, il tenente Assirelli girò per tutto il paese; chiese a tutti informazioni sul mio conto, e quando venne a dirmi che potevo considerarmi salvo, perché il comando tedesco mi aveva consegnato a lui, considerandolo responsabile delle mie future azioni, capì che sapevano tutto: chi ero e cosa aveva fatto. Mi disse anche che avrebbe chiamato un medico perché mi curasse. Venne infatti il medico condotto di Caneva, dottor Pegolo, che credo rimase molto impressionato dallo stato in cui mi trovavo. Dinnanzi a lui non era non ero più uomo, ma un mostro. Mi médicò e curò, e grazie alla mia forte fibra, in poco tempo mi ripresi abbastanza. Rimasi ancora per 8 giorni prigioniero, rinchiuso nei locali della centrale elettrica, sempre con il timore che i miei compagni tentassero di liberarmi con conseguenze che lascio immaginare. Un giorno il tenente Assirelli mi annunciò che ero libero di tornare a casa dove avrei potuto curarmi meglio e guarire più presto. Il tenente Zanetti voleva però consegnarmi alla X MAS di Sacile; Assirelli si oppose e come responsabile della mia persona ordinò che fossi liberato. Mi accompagnò fino al cancello di entrata alla centrale e lì mi lasciò libero. Percorsi la strada verso casa come se camminassi sul velluto; non vedevo nulla di ciò che mi circondava, avevo soltanto il desiderio di riabbracciare la mia bambina e mia moglie. 

Furono momenti, quando entrai in casa, indescrivibili. In poco tempo la casa fu piena di gente del paese che voleva vedermi, salutarmi, complimentarsi con me per lo scampato pericolo. Capii quanto buona e brava era la nostra gente; Non tutti erano spie, non tutti erano dei rinnegati, ma la maggior parte era solidale con noi partigiani. Correre il rischio di essere visti ad entrare in casa di un partigiano torturato e condannato a morte, voleva dire essere segnalato ai fascisti con il pericolo di essere portati via. Quella sera seppi anche della morte eroica di tuo fratello. 

Caro Sergio, tuo fratello ed io ci hanno fatto entrare nelle stanze della morte, ci hanno distrutto fisicamente, ma non hanno distrutto il nostro ideale: un mondo migliore per tutti, una maggiore giustizia, ma soprattutto la libertà per il nostro popolo e il nostro paese. Con lui ho provato l’angoscia del momento della condanna a morte, che per lui segnò la fine di una giovane vita, per me l’inizio, lo posso chiamare così, di un doloroso calvario. Per questo io solo posso testimoniare la generosità e l’eroismo di tuo fratello. 

Caro Beppi, da eroe ci hai lasciato e non potremo mai dimenticarti. Hai lasciato la tua mamma, il tuo papà, tuo fratello, hai lasciato tutti, anche quel Toni Pessot che assieme a te ha conosciuto e provato i crimini tedeschi e fascisti. Io che sono l’unico superstite di quei tragici giorni, non mancherò mai di venire a inginocchiarmi su quel cippo a Caneva, dove hai donato la tua giovane vita, ed assieme a tua madre e a tuo fratello ricordarti ed esaltarti per sempre.

Caro Sergio, quello che ho scritto è quanto mi ha dettato il cuore, naturalmente un cuore di un uomo di 60 anni, con la mente e il fisico provati e un po’ stanchi. Ma quanto ho scritto è la sola e pura verità. 

                                                                    

                                                                                                            Toni Pessot Freccia 


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