ATTILIO ZOLDAN "OSCAR"

Classe 1920, nato a Sarone, ex sergente maggiore del Reggimento di bersaglieri che occupava Lubjana, Oscar si trovò militesente durante una missione in patria. Reduce dal fronte sloveno, pur esonerato dagli obblighi militari per aver perso in Russia un fratello nella disfatta della ‘Julia’, nella primavera del 1944 formò il primo gruppo di partigiani, una trentina, dislocati nel bosco ai limiti del comune di Caneva. Alla Liberazione le Brigate del Cansiglio, comprese quelle dislocate sopra Vittorio Veneto, si trovarono riunite nella Divisione Nino Nanetti, eroe della guerra di Spagna, operante dal Bellunese, dalla sinistra Piave all’ Alto Friuli.

Mosso da solidarietà e da valori umani profondi, Attilio Zoldan non esitò a salire in montagna. Il nome di battaglia lo ereditò da un filantropo che educava i ragazzi più promettenti del paese con semplici nozioni di storia, di lingua italiana e di musica. Li preparava per una società più giusta e libera.

Un altro fratello, Angelin, morì a Dachau (Baviera) un mese prima che quel campo di concentramento fosse liberato. Nell’aprile 1945 Attilio Zoldan entrò in Sacile col suo reparto. Fu decorato con medaglia al valor militare.

Negli anni del dopoguerra iniziò il suo impegno politico per la comunità e in Consiglio Comunale, fino a diventare Sindaco di Caneva dal 1977 al 1980; mandato che svolse con la stessa umanità e gli stessi valori per i quali aveva combattuto.  


Qui di seguito ne rievoca la figura il nipote Roberto Zoldan, a quel tempo bambino, con i nonni all’alpeggio nella malga comunale della Zornèra.

 

Quei giovani che in Cansiglio

lottarono affinché finissero i lutti,

per la pace e la libertà…

 Tornavano da tutti i fronti travolti dalla tragedia di una guerra folle e inutile. Alcuni non potevano raggiungere la casa al Sud; altri, giovanissimi, si erano rifiutati di arruolarsi nella nuova Repubblica di Mussolini, dittatore, stratega già perdente o di finire nei campi di lavoro tedeschi. Altri si schierarono soltanto per difendere la propria terra e la propria gente, pur essendo cresciuti senza confronti culturali e politici nell’oscuramento del Fascismo. Come altre decine di migliaia di volontari del Centro e del Nord Italia, come… Attilio Zoldan.

 

IL RASTRELLAMENTO DEL SETTEMBRE 1944

 Era l’estate del 1944, ero lassù, a due ore di cammino da Sarone, un’ora dalla Crosetta, attorno soltanto sentieri di montagna, nella stalla 5 mucche e nelle ‘mandre’, il recinto mobile in legno, 40 pecore. La vita semplice e laboriosa scorreva tra gli echi della guerra e le notizie tragiche dal fronte. Attorno a dare sollievo c’era un piccolo paradiso fatto di animali e boschi, fatto di notti con le stelle e Dio sopra la testa.

Un giorno uscì dal bosco la figura di un giovanotto in divisa succinta color caki, che salutò il padre, il malghese Piero, e mi dette una carezza. Era lo zio Tilio, alias Oscar. Mi prese per mano e mi portò tra i faggi; passando da un sentiero all’altro arrivammo al centro di una piccola radura. Lì c’era l’accampamento estivo dei partigiani, ragazzi coi fazzoletti rossi al collo, emblema delle brigate Garibaldi. Le brande di frasche e fieno erano coperte da lobbie rudimentali fatte di zolle e fogliame, al centro il fuoco acceso. Mi dettero pane di segale, burro e marmellata lanciati dagli inglesi, un regalo prezioso per un bambino che di dolce conosceva soltanto lo zucchero, quel poco che si poteva portare in malga per addolcire il caffè autarchico. Quel poco zucchero, del resto, ci sarebbe stato requisito qualche giorno dopo da una pattuglia di tedeschi che entrò nel ‘casòn’ con le armi in pugno. Erano saliti da Sacile con altri reparti per un grande rastrellamento, avevano fame, si portarono via la modesta produzione settimanale di puìne e formaggio.

I partigiani del nord, dalla Liguria al Friuli e lungo la dorsale appenninica, insidiavano le retrovie delle truppe tedesche allineate sulla Linea Gotica. Il maresciallo Kesserling e Mussolini incitavano le loro armate a reprimere quella resistenza ‘col ferro e col fuoco’; l’8 settembre 1944 tedeschi e fascisti circondarono il Cansiglio con migliaia di uomini appoggiati da artiglieria, autoblindo e mortai. Salivano daIl’Alpago e da Vittorio Veneto, a piedi dalla dorsale che si affaccia sulla pianura friulana che si affaccia su Sacile e Pordenone. Le poche munizioni erano finite, non c’era alcuna possibilità di resistere a forze così preponderanti munite di armi e munizioni a volontà.

Nella notte le Brigate partigiane ricevono l’ordine di ripiegare a scaglioni sul Pian Cavallo, forzando l’accerchiamento in ore e luoghi diversi. Mentre lo sganciamento è iniziato, giunge notizia che il nemico ha già occupato Pian Cavallo e la zona attigua della Cereséra. A quel punto non resta che sciogliere i reparti e far dileguare singolarmente gli uomini verso la pianura dove avrebbero atteso l’ordine di rimobilitazione. I ragazzi sono spaventati, hanno poche armi, la via di fuga alle spalle, verso il Cansiglio, è preclusa, di fronte stanno salendo a piedi dei reparti di SS. Il comandante ha esperienza, è stato al fronte per tre anni, è di Sarone, conosce ogni anfratto della montagna, li incoraggia e dà ordini: stiamo uniti, seguitemi. Dal Col di San Martin una postazione stabile tedesca potrebbe vederli con il potente cannocchiale e farli circondare.

Oscar aspetta l’imbrunire, poi incolonna un centinaio di giovani, li fa scendere in fila indiana lungo il canale boschivo e nascosto (Sitàde) che arriva in pianura alle foci del Livenza. Finiranno in fienili, stalle e case ospitali del Friuli occidentale. Purtroppo alcuni fanno da soli e si staccano dal gruppo scendendo sulla costa del Gaiardin privo allora di boschi. Finiranno sotto il piombo tedesco. Se cercate tra i cespugli, in Pra della Scala, troverete alcune lapidi che li ricordano.

 

LO SCAMBIO DI PRIGIONIERI NEL VALON

 Febbraio 1945. I giovani ufficiali partigiani, ex militari, di cultura e formazione diverse, si aggregano con nozioni ideologiche rudimentali: ci sono i cattolici, i socialcomunisti, qualche liberale o repubblicano, i badogliani. Al Comando Brigata c’è un giovane ufficiale di collegamento inglese dello Special Operations Executive (SOE), paracadutato con un aiutante indiano sulla piana del Cansiglio. Gestiscono il collegamento radio per i lanci notturni. Ai garibaldini, sospetti di filocomunismo, arrivano dal cielo poche armi tra cui i deboli fucili Enfield del 1900, le cui pallottole si afflosciavano a 100 metri.

Il cuoco di quell’avamposto è un cosacco russo, fuggito da una divisone nazista che occupava l’Istria. Ci sono anche due tedeschi che hanno disertato; hanno capito che la guerra di Hitler è una follia ormai condannata alla disfatta. Gli altri sono il popolo, l’Italia vera, studenti di città che sapevano qualcosa del Partito popolare di Don Sturzo e del Partito socialista di Turati, contadini, operai, soldati di leva travolti dalla disfatta dell’8 settembre 1943. Notti di freddo, pioggia e vento si susseguono tra allarmi, agguati, sabotaggi in pianura e fughe nei boschi. Ma la terra, i contadini, i montanari e il Cansiglio sono nomi, volti e rumori di ‘casa’, rassicurano nei momenti più duri, proteggono dalle imboscate. Quando si combatte per difendere la propria terra e per la libertà, del resto, le forze si moltiplicano, la vittoria è certa, ovunque.

Il plotone tedesco che presiede Sarone è comandato da un tenentino saggio che alloggia nel cortile dei Bessega. Oscar gli fa sapere che vorrebbe trattare per un accordo informale che allenti gli agguati e la durezza dello scontro. I comandanti dei due reparti stabiliscono di incontrarsi nel Valòn, un grande avvallamento pluviale che arrivava al piano sotto la montagna, a metà percorso una grande diga di pietra ora inghiottita dalle cave di Sarone. A difesa da eventuali agguati, due postazioni partigiane di mitragliatrici si assestano sui costoni.

I tedeschi naturalmente sono in divisa, i partigiani tentano di dare dignità di uniforme al proprio abbigliamento povero, qualche capo ancora con le stellette; marciano in ‘ordine chiuso’, sotto i comandi secchi del comandante, si schierano sull’attenti. Il fazzoletto rosso del reparto è l’unico segno unificante: si deve sapere che quel plotone è fatto di soldati. I tedeschi sono stupiti, capiscono di avere di fronte i rappresentanti di un vero esercito clandestino. L’accordo, in sintesi, garantisce sicurezza per la comunità civile e la rinuncia agli agguati da parte dei giovani alla macchia. Si stabilisce anche uno scambio di prigionieri. Dalle carceri di Pordenone arrivano due partigiani, dalla montagna scendono i due tedeschi, presunti prigionieri, che poi torneranno lassù, attesi da Oscar.

 

LA LIBERAZIONE DI SACILE

 Dopo le rappresaglie, i rastrellamenti nei paesi della Pedemontana, gli incendi delle abitazioni di presunti ‘banditi’ (Achtung Banditi, dicevano i cartelli alla soglia dei boschi) da parte di reparti guidati da spie fasciste; dopo le impiccagioni a Sacile, le torture durante gli interrogatori nel comando nazista di San Giovanni di Polcenigo, ecco, finalmente, il 25 aprile.  Nessuna vendetta, raccomanda Oscar nella piazza di Sarone, nonostante qualcuno del paese abbia esposto suo fratello Angelin alla rappresaglia che lo portò a morire tra gli stenti in campo di concentramento. Qualcuno, ferito dai lutti, vuole mettere al muro qualche delatore tra i fascisti più fanatici. “Siamo soldati, è finita, nessuna vendetta”, furono le ultime parole di quell’epopea vissuta da una gioventù eroica e generosa. Con esse finì quell’evento sanguinoso che fu la guerra civile, una prova dolorosa per l’intero Nord Italia.

Dal 20 aprile 1945 gli ultimi reparti tedeschi sono in fuga verso il Brennero o verso Tarvisio; arriva l’ordine di liberare Sacile. Il reparto di Oscar scende al piano il 24 pomeriggio, si raccoglie in piazza a Sarone e punta sul capoluogo.  Non ci sono automezzi sufficienti, alcuni inforcano le biciclette del rivenditore Feltrin e corrono verso la cittadina sulla strada polverosa e bianca; il reparto si acquartiera in una caserma di via 25 aprile, poi entra in Municipio. Compare alle finestre qualche bandiera tricolore, si respira la prima aria di festa.

Con l’aiuto silente di qualche carabiniere, che aveva collaborato nella clandestinità, il reparto del comandante Oscar gestisce l’amministrazione e l’ordine pubblico fino all’8 maggio 1945, quando arriva a Sacile un plotone di inglesi che assume il controllo militare del territorio secondo gli accordi dell’armistizio.


“Fiòi, finalmente si torna a casa”, gridarono felici quei ragazzi. Alcuni erano andati alle armi cinque anni prima. Ne mancavano altri, rimasti nei cimiteri di Stevenà, Caneva e Sarone o sepolti sotto la neve del Cansiglio. 

Non dimentichiamoli.




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