LUOGHI DELLA RESISTENZA A CANEVA (PN)


Il 25 Aprile è una data fondamentale per la nostra Repubblica, per l'Italia. Questo piccolo contributo della nostra Associazione “La Storia siamo Noi”vuole essere un modo per ricordare il sacrificio di tante donne e tanti uomini: coloro che hanno fatto la Resistenza hanno infatti spesso pagato con la vita la loro opposizione al regime fascista. Non mancarono anche delle vere e proprie stragi. Rappresaglie nelle quali per mano nazista e fascista morirono tantissimi civili, non direttamente coinvolti nella lotta partigiana. Il Comune di Caneva (Pn), nella sua modesta realtà, è stato specchio e testimone di tali tragici avvenimenti con i suoi caduti e le sue stragi.

Di questi tempi è impossibile partecipare alle manifestazioni per la Liberazione che ogni anno vengono organizzate nel nostro Mandamento. Non potendo farlo fisicamente e non potendo incontrare di persona gli ultimi partigiani e deportati sopravvissuti, abbiamo pensato che un viaggio virtuale, sui luoghi del sacrificio di molti di loro nel nostro Comune, fosse un modo per stringere loro la mano, esprimere la nostra gratitudine e dire loro che non dimentichiamo.
Oggi, più che mai, in tempi così difficili per il nostro Paese, per l'Europa, abbiamo bisogno del loro esempio se vogliamo scorgere un orizzonte di speranza e di ripartenza.
Quando tutto sarà finito e potremo tornare sulle strade del nostro Comune, chissà che, passando davanti a questi luoghi, potremo ripensare a quel che è accaduto proprio lì e mandare un pensiero di gratitudine ai valorosi concittadini di allora.

Isidoro Zandonà - 25 Aprile 2020


FISCHIA IL VENTO


Cliccando sugli indicatori colorati compaiono le descrizioni dei luoghi



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I LUOGHI



CIMITERO DI STEVENA’
Ci sono le lapidi di cinque partigiani.
Emilio Carli “Oscar” nato l’ 1.1.1920 e Tulio Chiaradia “Elda” nato il 31.3.1926, appartenenti al Battaglione Ippolito Nievo, sono morti trucidati a colpi di baionetta il 10 Settembre 1944 per mano dei Tedeschi al Pra della Scala nei pressi del Gaiardin, dove ora sorge una lapide in memoria loro e di altri due compagni della brigata Tollot.
Angelo Cao nato l’8.5.1927, carbonaio, partigiano del Battaglione Ippolito Nievo, è morto in una sparatoria contro i tedeschi il 12 Settembre 1944
Benedetto Posocco “Gir”, nato il 3.9.924, agricoltore, partigiano del Battaglione Ippolito Nievo, è morto il 9 Aprile 1945, nel corso di un’azione della sua squadra contro una pattuglia tedesca.



Stefano Minatelli nato il 9.10.1899 e morto il 9.4.1945 per lo scoppio di una mina.

VIA DARIO CHIARADIA
Lapide in memoria di:
Benedetto Posocco “Gir”, nato il 3.9.1924, agricoltore, partigiano del Battaglione Ippolito Nievo, è morto il 9 Aprile 1945, nel corso di un’azione della sua squadra contro una pattuglia tedesca.

Dai "Diari storici dei Reparti Partigiani - Archivio dell'Istresco"
Una pattuglia del btg. “Nievo” della brigata “C. Menotti” nella zona di Caneva mentre procede all’eliminazione di una pericolosa spia, si scontra con un pattuglione tedesco numericamente superiore. Nel combattimento cadono nove nemici tra i quali un ufficiale. Il garibaldino Gir viene colpito mortalmente, il garibaldino Maslo viene ferito leggermente. Si sono distinti particolarmente i garibaldini: Capriolo, Maslo, Gir, i quali vengono posti all’ordine del giorno.

PIAZZA DEL CARMINE STEVENA’
La sera del 5 Marzo 1945 avvenne un agguato fascista nei confronti di tre partigiani, Antonio Masutti “Nettuno”, Eugenio Ros “Tigre” e Lorenzo Posocco “Neno”, e nello scontro morirono due fascisti, gli stessi che erano stati tra gli aguzzini di Toni Pessot “Freccia” (ridotto quasi in fin di vita) e di Giuseppe Antonini “Anna” (poi impiccato in piazza a Caneva). Nella notte fino al mattino del 6 fu compiuta dai tedeschi una feroce rappresaglia e sparatoria sulle abitazioni di Stevenà.
Le vittime innocenti di quella retata furono: Clelia Bit, nata il 19.9,1912, mamma di una bambina, il fratellino di Clelia Vittorino Bit nato il 7.6.1940 e Dina Croda, nata nel 1932, appena tornata con i genitori dal Belgio ed ospite della famiglia Bit. La sorella di Dina Florida rimase ferita e perse un occhio.
Venne pure bruciata con una bomba la casa di Giovanni Bit.
Tony Pessot "Freccia"
Tony Pessot "Freccia"
Toni Pessot narra nei “Ricordi del partigiano “Freccia” che il Borgo Bit e il Borgo Fontana furono le roccaforti dell’antifascismo a Stevenà.

LETTERA DI TONI PESSOT A SERGIO ANTONINI

ARCHIVIO FOTOGRAFICO FAMIGLIA PESSOT

VIA SERENO ZAT
Questa Via di Caneva è intitolata al partigiano Sereno Zat “Uragano” nato il 22.2.1915. Insieme al compagno Arturo Da Re “Argo”, nato il 22.2.1915, entrambi del Battaglione Ippolito Nievo, fu fucilato l’ 8 Agosto 1944
Da i “Ricordi del partigiano “Freccia” Toni Pessot”
Nel mese di luglio Sereno Zat (Uragano) e Arturo Da Re (Argo) riuscirono a sequestrare un camion carico di sale, alimento in quei momenti ricercatissimo, e vollero portarcelo in montagna. “
“…passarono Sacile, passarono Stevenà, Villa Belvedere e Sarmede, già cominciavano a tirare il fiato, quando a Cappella Maggiore, al Borgo Gobbi dove passano le condotte della centrale elettrica, incapparono in un posto di blocco istituito dai militi fascisti. Nulla poterono fare e vennero fatti prigionieri.”I compagni tentarono una trattativa per uno scambio ma riuscirono a procurarsi due prigionieri tedeschi troppo tardi. Furono fucilati a Pieve di Soligo davanti alla popolazione costretta ad assistere all’eccidio.
A Pieve di Soligo sul luogo dell’ eccidio c’è una lapide alla memoria.

PIAZZA MARTIRI GARIBALDINI CANEVA
Nei primi giorni di Novembre del 1944 in uno scontro armato tra tedeschi e partigiani muore un soldato tedesco. Il 7 Novembre inizia un rastrellamento e vengono arrestati Toni Pessot “Freccia” e il giovane partigiano del Battaglione Ippolito Nievo Giuseppe Antonini “Anna” nato a Maniago il 15.5.1924, studente decorato, alla memoria, con la medaglia al valore militare.
Giudicato da un tribunale farsesco “Anna” viene condannato a morte e viene impiccato al grande tiglio in Piazza Caneva, sotto al quale è stata posta una lapide che ricorda il suo sacrificio. Era l’8.11.1944, aveva solo 20 anni.

Dalle memorie di Sergio Antonini fratello di Giuseppe:
Il 31 ottobre 1944, vicino al cimitero di Caneva, alcuni partigiani uccidono un sergente e feriscono un maresciallo, entrambi nazisti. Tedeschi e repubblichini bloccano le persone che stanno rendendo omaggio ai defunti la vigilia del 1º novembre. I nazifascisti pur rinunciando a compiere una rappresaglia immediata, si ripromettono di infliggere una 'lezione" agli abitanti del borgo. Dopo quei fatti, giunge al comando repubblichino una lettera anonima che contiene i nomi dei partigiani di Caneva e dei loro familiari. 'Anna" fa parte di quella lista, e il 7 novembre i fascisti lo catturano con in tasca un lasciapassare partigiano. 'Anna" viene consegnato a Dornenburg. Durante l'interrogatorio con sevizie, 'Anna", conscio del suo destino, si assume la responsabilità dei fatti del 31 ottobre, anche se quel giorno era assente dal paese. (...) Confessò, con serenità e orgoglio la sua appartenenza alla Resistenza, proclamando il suo amore per l'Italia". Quale Italia?, gli domandò il suo aguzzino. 'L'Italia non oppressa dallo straniero e dai suoi servi, fu la risposta di mio fratello. Il giorno successivo “Anna” affronta un processo farsa assieme al partigiano “Freccia”, Toni Pessot.Dopo averli condannati entrambi a morte, tedeschi e fascisti riuniti a casa del podestà, decidono di ridurre in fin di vita a bastonate “Freccia” e di impiccare “Anna” che, mentre si avvia al patibolo, per pochi istanti incontra suo padre. Alcuni bambini stanno ancora giocando in piazza, li portano in chiesa, fra loro il futuro Vescovo di Concordia-Pordenone, Monsignor Ovidio Poletto.

Dal Diario di Costantino Cavarzerani:
Alle 17.30 è venuta l’ Emilia Fiorin, tutta tremante per aver visto passare il giovane Antonini tra tedeschi e fascisti, mentre veniva condotto in piazza a Caneva per essere impiccato… Avrebbe dichiarato fermamente di essere patriota, rifiutandosi di palesare il nome dei suoi compagni e preferendo la morte. Domando’ il sacerdote che gli venne accordato, ed andò impavido, sereno, tranquillo a supplizio. Gridò: Viva l’Italia, viva Cristo re.

CENTRALE ELETTRICA
La centrale, progettata dall'ingegnere pordenonese Antonio Pitter, che fa parte del sistema di impianti idroelettrici disposti in cascata che utilizzano le acque del fiume Piave, è stata realizzata nel periodo 1924-27 dall’allora SADE -Società Anonima Di Elettricità- (oggi ENEL).
L’edificio architettonicamente di pregio è ed era ovviamente strategico per l’erogazione di un’importante quota di energia elettrica verso il Friuli e verso il Veneto. In quegli anni 44/45 era sede del comando fascista e presidiato in forza dai Carabinieri mentre i Tedeschi rafforzarono la loro presenza stabilendosi nella Casa del Fascio (attuale sede dei Carabinieri), nelle Scuole Elementari e nella casa di Angelo Lucchese.
Ricordiamo qui la vicenda più grave della sua attività partigiana, accaduta a Toni Pessot “Freccia” nato l’ 1.3.1912 (morto il 14.7.1983).
L’ 8 Novembre 1944 venne arrestato insieme a un giovane partigiano del Battaglione Ippolito Nievo Giuseppe Antonini “Anna”. Il ragazzo fu subito portato all’impiccagione nella piazza di Caneva. “Freccia” trattenuto in casa Lucchese, sede del Comando Tedesco, venne interrogato e sottoposto a feroci torture per ottenere informazioni. Non si lascò sfuggire niente che potesse servire al nemico. Svenuto e sanguinante, credendolo morto, venne caricato su una carriola portato alla centrale elettrica e consegnato al comando fascista.
“Freccia” narra che grazie alle suppliche di molti paesani il tenente Assirelli gli risparmiò la vita e gli chiese in cambio, di fatto, un patto di non belligeranza reciproca tra i partigiani ed il comando fascista.
Ripresosi, grazie anche le cure del Dott. Pegolo, riuscì a tornare tra le fila combattenti sino alla Liberazione ed essere, nell’immediato dopoguerra, riconfermato alla presidenza del CLN.
Va ricordato che nell’Aprile del ‘45 la Centrale, che era stata minata dai tedeschi, fu liberata e salvata dalla distruzione dai combattenti della Brigata Ciro Menotti guidata dal comandante medico Raimondo Lacchin.


Raimondo Lacchin con altri partigiani della Ciro Menotti nei giorni della liberazione a Sarone


LOCALITA’ COL LONGON
Dopo uno scontro a Sarone tra nazifascisti e partigiani della Nannetti il 24 Aprile 1945 vennero rinvenuti nei pressi del Palù i cadaveri di due soldati tedeschi. La rappresaglia fu immediata: un reparto nazista si abbatté sulla casa più vicina quella di Mario Zaghet, nel Longon. Visto l’approssimarsi del reparto tedesco Dosolina Manfè pregò il marito di abbandonare l’abitazione, in quanto unico uomo adulto, confidando nel fatto che i nazisti non avrebbero fatto del male a lei, al figlio Ermenegildo di 8 mesi, al nipotino Enzo Carioti di 18 mesi e agli anziani suoceri Caterina Polo e Eugenio Zaghet. Mario si recò su di un’altura nei pressi della casa, per aspettare che le acque si calmassero. Il reparto, giunto a destinazione, colpì l’abitazione con bombe a mano e raffiche di mitra, uccidendo e ferendo gravemente le persone che vi si trovavano all’interno. Entrati nell’abitazione, dopo aver inferto il colpo di grazia ai feriti, i soldati si diedero al saccheggio e all’incendio della casa. Vedendo il fuoco da lontano, Mario decise di accorrere: trovò ancora agonizzanti la moglie e il figlio, che morirono pochi minuti dopo. Erano morti pure i genitori e il nipotino.



Da un'intervista di Catia Carioti figlia di Norma Zaghet e nipote di Eugenio Zaghet:
Una storia raccappricciante. Mia mamma in quel periodo abitava con i nonni a Sarone. Quel giorno doveva andare in paese per portare vestiti agli sfollati. Lascia Enzo a casa perchè dorme. Norma è in paese quando sente suonare la sirena e vede del fumo. Prende la bicicletta per tornare a casa e dalla cima della strada vede la casa bruciare: i tedeschi l'hanno fatta saltare con una bomba. Di nuovo giù per il sentiero in bicicletta, fino a quando arriva vicina all'abitazione. Qui la blocca un militare tedesco con una pistola. Norma assiste impotente allo sterminio. Sentiva dei lamenti dalla casa e degli spari . Nessuno si poteva avvicinare perchè i tedeschi erano lì con i cani. I nostri morti sono rimasti lì tutta la notte, nessuno del paese si poteva avvicinare.
Probabile autore della strage e figura chiave per comprendere la repressione tedesca nell’area pordenonese fu un certo Alfred Dörnenburg, più conosciuto con il soprannome di “Foghin” attribuitogli dalla popolazione locale per il suo frequente ricorso all’incendio delle abitazioni civili. Nato il 22 gennaio del 1916 a Wuppertal, era di stanza ad Aviano come sottotenente medico della Luftwaffe.
Responsabile della maggior parte delle operazioni contro le bande partigiane nella zona pedemontana avvenute tra l’agosto 1944 e la primavera del 1945 e mandante di numerose fucilazioni, rappresaglie, omicidi e atti di violenza contro la popolazione civile, egli venne catturato dagli Alleati il 1 maggio del 1945 a Maniago, riuscendo però nelle settimane seguenti a far perdere le proprie tracce.
Nel 1997 Sergio Dini, Pm della Procura Militare di Padova, raccogliendo numerosi fascicoli aperti nell’immediato dopoguerra dalla Procura a seguito di denunce inerenti fatti di sangue avvenuti nel pordenonese ad opera di un non meglio specificato “Donnemburg”, “Dorrnemberg” o “Dornerberg”, meglio conosciuto come il “Foghin”, decise di riaprire le indagini per accertare le responsabilità circa i fatti accaduti tra l’agosto 1944 e l’aprile del 1945 in quella zona. L’istruttoria si sarebbe per lungo tempo arenata di fronte alle difficoltà incontrate nel ricostruire l’identità effettiva del tenente medico, ma grazie ai contatti presi tra il Consolato Generale d’Italia con la Deutsche Dienststelle (WASt), egli venne rintracciato a Speyer, dove risiedeva stabilmente dal 1965. Accolta nel 2004 la richiesta di rinvio a giudizio avanzata da Dini nei confronti di Dörnenburg per il reato di «violenza continuata contro privati nemici mediante omicidio», l’udienza venne fissata per il 19 aprile del 2005. L’ex tenente medico era chiamato a rispondere ad un capo di imputazione che lo accusava di 31 omicidi e di violenze varie avvenute nei territori del pordenonese. Il dibattimento non ebbe mai luogo perché il 31 marzo del 2005 Dörnenburg si sarebbe spento all’età di 89 anni presso l’ospedale di Speyer.


Il 21 Gennaio 2021 sul luogo della tragedia sono state posate cinque pietre d'inciampo con un'iniziativa promossa dagli insegnati e dagli studenti del liceo Leopardi Majorana di Pordenone





In occasione della cerimonia di posa delle pietre d'inciampo la signora Franca Caterina Zaghet , figlia di Mario Zaghet e Dosolina Manfè, ha pronunciato un discorso che riportiamo di seguito.

FRANCA CATERINA ZAGHET: LA MIA TESTIMONIANZA

“Mi è stato chiesto molte volte di parlare in qualche scuola, ma ho sempre rifiutato, perché non mi sentivo in grado di farlo e poi l'emozione mi toglieva la voce. Ma ora ci sto mettendo tutto il mio coraggio per dare una testimonianza.

Voglio raccontare un passato che, nonostante i 76 anni trascorsi (io allora avevo tre anni), continua a farmi male.

All'epoca dei fatti, la mia famiglia era così composta.

I nonni paterni Eugenio e Caterina avevano 5 figli: 3 maschi e due femmine.

Il più vecchio Romeo è partito per l'Africa da dove non ha potuto fare ritorno per 12 anni. Lo zio Egisto era in Germania, dove è rimasto prigioniero fino a dopo la guerra. La figlia più vecchia, Zia Bruna, si era sposata ed era andata ad abitare ad Amborzasco, in Liguria.

Nella casa situata nel Longon erano rimasti i due nonni, zia Norma con il suo bambino di 18 mesi (il marito era in guerra, come gli altri due zii), mia mamma, il mio fratellino di 9 mesi, che al momento dei fatti era in braccio alla mamma, il mio papà Mario, come sostegno economico per dare da mangiare alla famiglia.

Il giorno 24 aprile del 1945 una persona in bicicletta che passava di là ha detto: “Scappate perché stanno arrivando i tedeschi!”. La zia Norma era fuori casa. Mia mamma ha detto a mio padre: “ Tu scappa, a noi mamme con i bambini non faranno niente e nemmeno ai nonni”.

Io ero a Sarone dai nonni materni. La mamma era passata in bicicletta a prendere mio fratello, che era con me dai nonni, il giorno prima ma, essendo già tanto carica, mi ha promesso che sarebbe tornata a prendermi il giorno dopo. Questo fatto ha salvato la mia vita , ma ha anche dato inizio alla mia sofferenza.

Eravamo verso la fine della guerra, ormai i Tedeschi stavano perdendo e i Partigiani erano in azione. In un assalto armato venne ucciso un soldato tedesco e i Tedeschi scatenarono subito la rappresaglia.

Da Sarone andavano verso Polcenigo dove c'era il comando del Tenente Alfred Donnenerbug. Proprio lui diede l'ordine di bruciare la prima casa che avessero trovato lungo la strada ( non era la prima volta che bruciavano case, ne avevano distrutte in altri luoghi, ma senza le persone dentro).

Qui, in questo luogo, non si limitarono a distruggere la casa, uccisero anche le cinque persone che si trovavano lì dentro: i miei due nonni, mia mamma con il mio fratellino e il figlio di zia Norma. Si erano chiusi in casa, nel tinello. I Tedeschi prima spararono loro dalla finestra e poi buttarono le bombe sulla casa.

I Tedeschi poi non permisero a nessuno di avvicinarsi e i morti perciò rimasero lì tutta la notte.

Così è incominciato il mio calvario. La zia Emma, sorella di mia mamma, aveva già quattro figli, ma non ha esitato a tenermi con lei: ero una parte di sua sorella. Il nonno materno appena avuta la notizia si sentì male e dopo un mese morì.

Io, pur vivendo in casa con gli zii, non sentivo mai parlare di quello che era successo. Neppure io avevo il coraggio di chiedere, però la cosa mi angosciava: non vedevo più mia mamma, passavano gli anni, sentivo sempre di più il desiderio di chiamarla. Quando sentivo i figli della zia chiamare “mamma” era uno strazio.

Un giorno la zia si mise a fare i crostoli e tutti noi eravamo intorno. Gli altri tutti contenti continuavano a chiamare “mamma” e ad un certo punto ho fatto il mio tentativo: “Zia ti chiamo mamma anch'io!” La risposta della zia: “Ma si!”

Allora formulavo un discorso e ci mettevo “mamma” prima e dopo, ma il tutto è durato solo un giorno.

Quando le mie amiche litigavano con la mamma io piangevo, non capivo perché con la mamma ci si potesse litigare.

Quando poi ho frequentato le elementari qui a Sarone ho sofferto tantissimo quando la maestra doveva parlare della guerra. Era una cosa che mi angosciava, mi sognavo alla notte e urlavo correndo subito nella camera della zia, passando per un corridoio di venti metri che per me era infinito.

Gli zii Romeo ed Egisto, che erano lontani e, immagino, non al corrente di quello che era successo in Italia, quando tornarono non hanno più trovato la loro casa e non sapevano dove andare. Allora zia Bruna li ha invitati in Liguria e ha dato loro ospitalità.

Il mio papà (e questo è un dramma aggiunto) si sentiva accusato e colpevole di aver abbandonato la sua famiglia nel momento del pericolo ed è andato a vivere per conto suo. Ci sono voluti anni prima che cominciassimo a frequentarci, e allora mi ha spiegato tutto quel che era accaduto. Solo che dopo due anni è morto di cancro.

Mi è rimasta sempre una grande paura, ero già grande ma quando sentivo gli aerei mi tappavo le orecchie. Di fronte a certe scelte da fare, rifiutavo sempre. Per esempio a me piace fare i dolci, è una cosa che mi fa dimenticare tutto quello che ho intorno. I miei colleghi di lavoro mi avevano proposto di avviare una pasticceria, i soldi li avrebbero messi loro. Ebbene ho detto subito di no, perché l'incognito mi metteva paura. Ho perso tantissime occasioni per la mia paura.

Qualche volta mi illudo di averla superata questa paura, ma poi ci ricasco.

Come l'altro giorno che alla televisione ho voluto guardare il film su Chiara Lubich, ma mi sono lasciata prendere dal racconto della guerra e sono andata in crisi.

La guerra ha lasciato tanta povertà e molti italiani hanno dovuto poi andare all'estero per guadagnarsi da vivere.

I nostri morti hanno dato la vita per la libertà. E' un grande valore! Cerchiamo di meritarcela e di usarla bene, almeno qualche volta ricordiamoci di ringraziare per quello che abbiamo e non lamentiamoci sempre per quello che ci manca.

A voi giovani il compito di saper discernere e di tirar fuori il meglio che c'è nell'uomo. I pregi e gli errori sono sempre dell'uomo.

La fraternità, di un uomo o di una donna che sia, è la cosa più preziosa che abbiamo sulla terra, è un regalo che Dio ha messo a nostra disposizione pur lasciandoci la libertà di agire. La guerra ci ha mostrato la parte peggiore dell'uomo, ma io sono convinta che nell'uomo c'è ancora tanto di buono da scoprire.

Noi anziani ci fermiamo, nella speranza di riuscire a vedere, grazie a voi giovani, un mondo migliore, dove a nessuno manchi il necessario per vivere e la pace.”

Franca Zaghet





VIA CANSIGLIO – STRADA DELLA RESISTENZA -
Una targa dedica alla memoria della Resistenza la strada che porta al Cansiglio.
Il Cansiglio e tutta la zona montana del nostro Comune sono stati teatro della lotta partigiana tra il 1944 e il 1945.
Inizio estate del ‘44, dopo che alcuni giovani di Montaner e Vittorio Veneto avevano già preso la via del Cansiglio fondando il Battaglione "Vittorio Veneto", andarono in Cansiglio i giovani partigiani di Stevenà e parte di quelli di Caneva e parteciparono alla formazione del Battaglione Ippolito Nievo, al comando di Eugenio Polese “Macchi” di Caneva. Nel contempo i giovani di Sarone raggiunsero Attilio Zoldan “Oscar” comandante del battaglione Peruch. I due battaglioni facevano parte della Brigata Ciro Menotti.
L'organizzazione della Resistenza sull'altopiano proseguirà nei mesi successivi tra azioni e rastrellamenti nazi-fascisti. L’ 8 Settembre del ‘44 avvenne il massiccio attacco tedesco con 20.000 uomini che costrinsero i nostri combattenti al ripiegamento in pianura.
Da i “Ricordi del partigiano “Freccia” Toni Pessot”
Solo Attilio Zoldan (Oscar), comandante della divisione Gramsci, poteva salvarci: lui conosceva il Cansiglio come le proprie tasche, lui sapeva muoversi per ogni piega delle nostre montagne ad occhi chiusi. Ed a lui ci affidammo. Sepolti gli zaini sotto i sassi dei muretti, guidati da Oscar, scendemmo con le sole armi dal Cansiglio, diretti verso la fornace di Sarone, al Mulinet, passando per Scitade attraverso un bosco di castagni e ci trovammo fuori della cerchia.Scommetto che la via da noi seguita era l’ultimissima non ancora cerchiata dai nostri accerchiatori. Grazie, Oscar ! Sei stato in gamba.
Nell'autunno e inverno rimane sull'Altopiano solo uno sparuto gruppo di uomini a difesa dei campi di lancio, per ricevere le armi che permetteranno alle formazioni risalite la primavera successiva in montagna di proseguire la lotta fino alla Liberazione.

Tra gli esponenti più importanti della lotta Partigiana in Cansiglio ci piace ricordare anche Giuseppe Giust (Vitas). Nato a Sarone nel 1920 partecipò all’organizzazione delle prime formazioni della Resistenza organizzando i giovani di Caneva e Cordignano. Divenne comandante della Brigata Partigiana d’Assalto “Cacciatori delle Alpi” del Gruppo Brigate Vittorio Veneto, Divisione Nino Nanetti. Con i suoi uomini costrinse alla resa un reparto del battaglione “Barbarigo” della X MAS, liberò Sarmede, catturò i repubblichini che loro quartier generale di Cordignano, fece prigioniero il generale Von Kamps, uno dei comandanti della Gestapo in Italia. Nei giorni dell’insurrezione i partigiani guidati da “Vitas” costrinsero ad arrendersi i presìdi tedeschi di Orsago e Cordignano, catturarono un autocolonna tedesca lungo la strada Alemagna e, con un’azione combinata con i garibaldini della “Cairoli”, bloccarono la colonna corazzata comandata dal colonnello Gerike, catturando oltre mille militari tedeschi e repubblichini. Tutte queste imprese valsero a Giuseppe Giust la Medaglia d’argento e l’americana “Bronze Star Medal”. Il libro di Pier Paolo Brescacin "GiuseppeGiust: la mia Resistenza. Intervista al comandante partigiano Vitas. Con alcunenote sulla Brigata Cacciatori delle Alpi" ripercorre il percorso di Giuseppe Giust nella Resistenza. 




PRA DELLA SCALA
Lapide in memoria dei partigiani: Emilio Carli “Oscar” nato l’ 1.1.1920 e Tulio Chiaradia “Elda” nato il 31.3.1926, appartenenti al Battaglione Ippolito Nievo, sono morti trucidati a colpi di baionetta il 10 Settembre 1944 per mano dei Tedeschi al Pra della Scala nei pressi del Gaiardin, dove ora sorge una lapide in memoria loro e di altri due compagni della brigata Tollot.

VIA MESCHIO - FRATTA
Al civico 12 è presente una targa che ricorda Guido Bolzan Mariotti, comandante della Brigata Piave che operò tra Tarzo, Vittorio Veneto e Conegliano. Il 28 Aprile la Brigata Piave occupò la città di Coneglaino e mise sotto proprio controllo il territorio circostante.



RICORDO DI UNA FIGLIA
“Mia mamma si chiamava Eufemia, ma da tutti conosciuta come Gina. A lei era capitato quel nome un po’ strano perché nonno Enrico aveva voluto chiamare i propri figli con la E iniziale.
Sposata molto giovane con mio papà Attilio, è stata una moglie coraggiosa di un partigiano molto attivo, conoscitore di tutto il Cansiglio. Per questo era una sorvegliata speciale dalle autorità nazifasciste di quei tempi, come tutte le donne dei combattenti nella Resistenza.
Ecco perché tutte le volte che guardo il Col San Martin soffro. Soffro perché mi è stato raccontato che, durante un rastrellamento, lei ha dovuto fuggire di casa portandomi con sé piccolissima. Era andata a cercare rifugio dalla nonna Ida, ma lei purtroppo non le aveva dato ricovero, perché se l’avessero trovata lì, avrebbero bruciato la casa e messo al muro i suoi abitanti per costringerli a rivelare dove fossero nascosti i partigiani. Allora si è allontanata ed è andata da una parente a Fiaschetti, ma neppure quella l'ha ospitata, sempre per lo stesso motivo. Intanto si era fatto sera, era stanca, digiuna e impaurita dagli spari che sentiva provenire dal paese. Così ha raggiunto il colle, mi ha allattato e ci siamo distese nel fitto del sottobosco e addormentate. Ha fatto ritorno a casa il giorno successivo solo dopo essersi accertata che i tedeschi avevano lasciato il paese. Avevano purtroppo incendiato qualche abitazione.
Le donne dei partigiani avevano ruoli importanti e più di una volta hanno rischiato la loro vita. C'erano dappertutto delle spie, non ci si poteva fidare neanche dei vicini di casa. I rifornimenti di cibo e di armi, avvenivano sempre di notte e dopo parecchi appostamenti per non dare nell’occhio. Mi è stato raccontato questo episodio: da poco gli alleati avevano rifornito una partita di armi e bombe a mano che erano state nascoste in attesa che qualcuno degli uomini scendesse dai nascondigli in montagna per prelevarle. Ma qualcuno aveva parlato e una sera i tedeschi hanno cominciato a perquisire le abitazioni sospette. Mia mamma, che era incinta di me, si è messa a letto e quando i soldati sono entrati nella sua camera e l'hanno vista con il pancione si sono bloccati e per fortuna non hanno rovistato nella stanza. Non trovando nulla in casa se ne sono andati via. Sotto le coperte mia mamma era circondata da un piccolo arsenale composto di bombe a mano e munizioni di vario tipo.
Ho cercato con la maturità di mettermi nei suoi panni, di pensare alle paure e alle molteplici privazioni, a quanta strada ha percorso su e giù dalla montagna con cesti di biancheria e vestiti nascosti sotto fasci di erba e fieno. Una volta, lungo questo tragitto, nel Vallone ha trovato una pattuglia di controllo, ma lei, con il suo bell’aspetto, il sangue freddo, il sorriso sulle labbra, ha risposto alle innumerevoli domande e ha giustificato la presenza in quel luogo dicendo che era stata in malga a prendere il foraggio per i conigli. Anche questa volta l’ha passata liscia! Non so chi la proteggeva dal cielo.
La quasi totalità dei giovani saronesi in quel periodo erano partigiani e avevano raggiunto mio papà Attilio, nome di battaglia Oscar, comandante del battaglione Peruch in Cansiglio. Lui conosceva il luogo come le proprie tasche, lui sapeva muoversi per ogni piega delle nostre montagne ad occhi chiusi. Resta nella memoria che durante l’attacco nazifascista dell’ 8 Settembre del ‘44 riuscì a portare in salvo molti uomini. Dopo aver fatto seppellire i loro zaini sotto i sassi dei muretti a secco li fece scendere solo con le armi, diretti alla fornace di Sarone, passando per “Scitade” attraverso un bosco di castagni. La via seguita era l’ultima non bloccata dai nemici.
Mamma questo ricordo te lo dovevo. “

Mariagrazia Zoldan



Da Caneva ci furono anche partigiani che entrarono nella Brigata Garibaldi "friuli" che dall'ottobre 1943 operò sulle Prealpi Giulie e Carniche. Le brigate d’assalto "Garibaldi", sono legate prevalentemente al PCI ma, essendo particolarmente diffuse, vi militano anche esponenti di altri partiti del CLN, soprattutto socialisti, azionisti e talvolta cattolici.
Le Brigate Garibaldi annoverano infatti capi di enorme caratura che non sono militanti comunisti, come ad esempio il cattolico ed apolitico Aldo Gastaldi ‘Bisagno’ di Genova, l'apolitico Mario Musolesi, l'anarchico Emilio Canzi comandante unico della XIII zona operativa nell’Appennino Tosco Emiliano.
Esplicito nella denominazione delle brigate è sia il riferimento al Risorgimento italiano, indicando in Giuseppe Garibaldi la figura simbolo della lotta, sia la volontà di azione esplicitata dalla dicitura ‘d’assalto’. Qui il ricordo di Giovanni Andrea Burigana, membro della Brigata Garibaldi Friuli, fatto dalla nipote Mara.  LO CHIAMAVANO HANSI


Una parte importante della resistenza nel nostro Comune fu svolta dalle donne.
LA RESISTENZA DELLE DONNE A CANEVA

Commenti

  1. Grazie Maristella per il ricordo.

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